lunedì 25 maggio 2015

Andoni Iraola, l'essenziale.


Foto Athletic-club.eus.

Riprendo a scrivere dopo un'assenza infinita a causa di vari fattori che mi stanno facendo ripensare sempre più alla formula del blog. In attesa di ulteriori comunicazioni, vi invito a seguire i social network collegati a questa pagina per tutte le ultime notizie (in particolare Facebook, dove pubblico le news sulla squadra).
Torno a scrivere non per raccontarvi della splendida vittoria sul Villarreal, che ci assicura peraltro un posto ai preliminari di EL della prossima stagione, o per presentare la partita di sabato prossimo contro il Barcellona, ma per celebrare degnamente un monumento dell'Athletic degli ultimi 20 anni: Andoni Iraola. La partita di sabato scorso è stata infatti l'ultima delle 406 presenze in Liga del numero 15 con la zurigorri (509 quelle totali, che diventeranno 510 dopo la finale di Coppa del Re del 30 maggio): fra un mese, alla scadenza del contratto, Iraola ci lascerà. La sua destinazione saranno gli Stati Uniti, e d'altra parte solo immaginarlo con un'altra maglia in Spagna sarebbe stato folle. Il suo addio è stato un po' trascurato dai media, visto che è coinciso con quello di Xavi; in Italia credo che la notizia sia stata data con un paio di trafiletti o poco più, come succede praticamente sempre con l'Athletic. Poco male, peccato solo per chi non conoscerà mai la storia di una vera leggenda. Perché essere una bandiera è bellissimo, ma esserlo in una società che raramente è in lizza per vincere qualcosa (e non si parla certo di campionati o Champion's league) ha un valore inestimabile. Facile restare una vita a Barcellona, dove ogni anno si lotta per il massimo; per non muoversi da Bilbao, senza mai mettere in discussione la propria dedizione e la propria appartenenza, servono una tempra e una cavalleria da uomo d'altri tempi.
Andoni Iraola, per l'appunto, uomo d'altri tempi lo è. A cominciare dall'aspetto fisico: nessun tatuaggio, nessuna acconciatura stravagante, nessun segno particolare a rimarcarne la differenza rispetto a compagni e avversari. Sicuramente non bello, distante anni luce dal prototipo del giocatore-modello, ha sempre lasciato che fossero soltanto i suoi tratti spigolosi, baschi al 100%, a raccontarne la storia. Misurato nella gioia e nella sofferenza (sportiva, s'intende), per tutta la carriera ha parlato poco e giocato molto, preferendo sempre il linguaggio del campo alle chiacchiere del dopo gara. E non perché non avesse nulla da dire: le sue dichiarazioni sono sempre state molto più intelligenti della media. Ma Iraola è un uomo fatto di silenzi più che di discorsi, di fatti concreti più che di idee fumose, di semplicità più che di complicazioni.
Quando militava nelle giovanili dell'Athletic, ala destra con poche concessioni alla giocata a effetto, nessuno pensava che potesse arrivare in prima squadra. Allora quel ruolo era appannaggio di un monumento come Joseba Etxeberria e solo pensare di sostituirlo era un sacrilegio, inoltre ai più sfuggivano le qualità reali del ragazzo. Bravo era bravo, ma mancava di quel pizzico di sregolatezza che fa il grande esterno offensivo; era troppo metodico, troppo regolare per accendere la fantasia e alimentare le speranze. Poi al Bilbao Athletic arrivò un giovane allenatore con pochissima esperienza, un certo Ernesto Valverde. Txingurri, che era stato un grande attaccante, vide qualcosa che in pochissimi avevano notato. Arretrò il ragazzino di qualche metro e gli chiese se volesse giocare terzino: lui, come sempre, rispose di non avere problemi. L'anno dopo salì in prima squadra col suo mentore, che lo propose titolare dalla prima giornata: da allora è rimasto su quella fascia per 12 anni, diventando un idolo vero della tifoseria e ritagliandosi uno spazio tutto suo nel Pantheon delle leggende biancorosse. Iraola è stato un fluidificante meraviglioso, uno dei migliori d'Europa per almeno 10 anni e senza dubbio uno dei più grandi di sempre dell'Athletic. Ottimi piedi, visione di gioco eccellente, tempi di inserimento fantastici, dribbling secco, buon tiro, splendido cross: impossibile trovare una falla nel suo bagaglio tecnico. Dal punto di vista difensivo non è mai stato un drago, seppur nel corso del tempo abbia limato la leggerezza originaria nei contrasti e i difetti di posizione dovuti all'impostazione da esterno alto ricevuta a inizio carriera tra Antiguoko (glorioso club giputxi convenzionato con l'Athletic, dov'è cresciuto anche Aduriz) e Lezama. Fin dagli esordi in prima squadra è emersa con forza la sua personalità, mai urlata eppure sempre ben recepita dai compagni. Leader silenzioso ma non per questo meno efficace, ha indossato la fascia da capitano con un'eleganza e un'efficacia pari solo a quelle delle sue discese sulla destra. In condizioni di emergenza ha mostrato una duttilità sconosciuta per la maggioranza dei suoi colleghi, arrivando a giocare come regista nel corso della sciagurata temporada 2006/07, funestata dall'infortunio di Orbaiz e dalla squalifica di Gurpegi; la salvezza di quell'anno si deve anche a una sua straordinaria doppietta ad Anoeta, che valse un 2-0 preziosissimo visto che la Real Sociedad finì per retrocedere con cinque punti in meno dell'Athletic.
Esempio di professionalità e dedizione senza uguali, non si è mai segnalato per comportamenti extra campo inappropriati. Nel corso della sua lunga carriera è stato fortunato a non farsi male in modo serio, cosa che gli ha permesso di issarsi al quarto posto per presenze totali con la maglia dell'Athletic (secondo assoluto dopo Iribar per partite internazionali). Se avesse proseguito per un altro anno, come chiestogli dalla società, avrebbe facilmente scavalcato Etxeberria (terzo con 514 gettoni), tuttavia lui stesso ha spiegato di non essere interessato ai record e di non sentirsi più in grado di offrire il rendimento che ci si attende da chi indossa la zurigorri. Un altro esempio di quale splendido essere umano sia Iraola.
Parlare di Andoni per me non è facile. Stesso ruolo, stessa età (lui è un anno più giovane), l'atteggiamento verso il calcio che amo: in lui ho sempre visto molto più di un semplice giocatore. Un idolo, l'ultimo vero idolo che ho avuto. Dopo di lui non ce ne saranno altri, per disillusione personale e incompatibilità conclamata con il futbol attuale. E aver preso la maglia che lui ha lanciato a Torino, proprio nell'anno del suo addio, è per me più di un segno.
Con l'Athletic non ha vinto nulla ed è probabile che il palmarès non cambi dopo sabato prossimo. Ci è andato vicino (due finali di Copa e una di EL), ma non credo che abbia rimpianti. Sa di aver lottato alla pari contro squadre dove ci sono giocatori pagati quanto l'intera rosa bilbaina, e si è tolto alcune soddisfazioni riservate a pochi. Vincere a Old Trafford, come lui stesso ha dichiarato, la più grande. "Fra 15 anni quella sarà una partita che vorrò rivedere", ha detto il giorno della conferenza stampa d'addio. In nazionale ha raccolto meno di quanto avrebbe meritato, pagando soprattutto le scelte geopolitiche dei ct: in nessun'altra selezione del mondo Arbeloa sarebbe stato considerato più meritevole di lui. Ha pagato anche la decisione di restare per sempre nella sua squadra del cuore; decisione mai messa in discussione, tanto che non ho memoria di alcuna voce di mercato seria che lo abbia riguardato in questi anni. Il suo stile e la sua classe si sono visti anche nell'ultima partita a San Mamés: dopo ovazioni e applausi da ogni settore, lui è andato a festeggiare con la Herri Harmaila, la grada popular, il settore "caldo" dello stadio. Abbracciato con alcuni membri storici della tifoseria, ha cantato e saltato come un tifoso, come uno di noi.
Se dovessero chiedermi una parola per definire Andoni Iraola, non avrei dubbi: essenziale. Inteso come semplice, certo, ma anche come indispensabile. Essenziale in quanto sostanza stessa del calcio che vorrei, che vorremmo. In un momento storico in cui l'eccesso sembra essere l'unica cifra possibile del reale, un uomo come lui ci mancherà ancora di più. Eskerrik asko, Andoni.